La storia di Sofia Varvaro

Sofia Varvaro (Palermo 1941 – Roma 1972) fu tra le prime ragazze italiane a entrare nell’Opus Dei. Il libro di Vittorio Varvaro "La breve storia di Sofia", Ed. Ares, Milano, verà presentato a Verona, il 5 marzo, alle ore 18, nell'Auditorium G. Bisoffi, via Calatafimi 10/A. Interverranno mons. Flavio Capucci, Carla Rossi Espagnet e Vittorio Varvaro.

Sofia Varvaro (Palermo 1941 – Roma 1972) fu tra le prime ragazze italiane a entrare nell’Opus Dei. Per seguire la chiamata di Dio, lasciò presto la sua città e la casa paterna malgrado l’incomprensione dei familiari, che non compresero sul momento le ragioni della sua scelta.

Attraverso le sue toccanti lettere si svela la realtà di una giovane anima innamorata di Dio, impegnata a trovare la propria santificazione nello studio e nell’apostolato come nelle occupazioni più ordinarie.  

L’epistolario di Sofia, specchio della sua profonda vita interiore e della sua ricca umanità, insieme ai ricordi di chi ha condiviso con lei questa affascinante avventura, offre una testimonianza di primissima mano sugli esordi dell’Opus Dei in Italia, in un periodo storico di rapida espansione e di speranze, ma anche di ristrettezze e di sacrifici.  

A riannodare i fili del racconto e a inquadrarlo sotto il profilo storico è il fratello di Sofia, Vittorio, punto di riferimento per lei, soprattutto dal momento in cui il padre interrompe ogni contatto. Al termine della vita di Sofia sentirà l’impulso interiore a seguirne la strada, entrando anche lui a far parte dell’Opus Dei.

Di seguito pubblichiamo due lettere tratte dal libro (Edizioni Ares), scritte nel 1967 e nel 1968 a suo padre:

Milano, 24 dicembre 1967

Carissimo papà,

notte di Natale. Sono sola in casa e vorrei avvicinarmi a te. Tutto intorno, silenzio. È l’atmosfera in cui meglio ci muoviamo tu e io, specialmente quando cerchiamo di incontrarci. Come stai? Scrivi molto? Cosa? Ti tiene abbastanza compagnia il tuo lavoro o ti senti spesso più solo che abitualmente?

Stanotte è festa. Chi crede, ricorda uno splendido mistero: «Il Verbo si fece carne ed abitò fra noi». Dio è con noi.

«Se io credessi in Dio, mi perderei in Lui». Parole lette una volta ma che non riesco a dimenticare. Sono per me una speranza. Quanti di noi che crediamo dobbiamo imparare a perderci in Lui per ritrovarci. Quanti di quelli che credono non hanno ancora capito che bisogna perdersi, e tu che lo hai capito non puoi credere. Perché? Non so. Io sto solo provando a credere sempre più veramente, giorno dopo giorno, per imparare a perdermi e a trovarmi.

Comunque, tu devi poter capire che è incredibilmente bello che Dio si sia fatto carne per svelarsi a noi e per svelarci sé stesso. C’è di che gioire e di che stare in silenzio, di che cantare e di che fare follie. Il senso della vita è qui: solo quando avremo creduto a questo mistero intravisto, potremo essere ammessi a possederlo.

Tu non lo sai, ma io ti dico un segreto: io voglio vedere Dio. Si può aspettare a vivere una vita pur di arrivarci, di arrivare a essere in Lui, a sapere cos’è Dio e a possederlo. Sono questi i miei desideri, da non dire a nessuno. Solo a Lui e a te, che rimani in silenzio e non sciupi – divulgandoli – i segreti.

Buon Natale, papà, anche a te. E buon anno. Un anno di cammino e di ricerca nuovo per te, per me, per noi tutti. Auguri! Vorrei che li ascoltassi e me li ricambiassi. Devi augurarmi di arrivare. Io a te auguro tutto: una luce, un compagno e la meta. Auguri!

Ricordati ogni tanto di me. Ho ancora bisogno di te [...].

 

Milano, 22 dicembre 1968

Carissimo papà,

penso che a quest’ora Alberto, Letizia e i bambini saranno già arrivati a Palermo. Oggi è domenica e anche Vittorio e M. Cristina saranno a pranzo da voi con le bambine; bisognerà preparare di nuovo un secondo tavolo nella stanza da pranzo, come questa estate. Sarete 13 e malgrado la baraonda sarà bello.

A me è rimasta così viva l’impressione di questa estate, della prima domenica che sono venuta a pranzo a casa, ed eravamo di nuovo tutti insieme, dopo tanti anni, e sereni. I piatti del servizio antico che mamma tira fuori solo ogni tanto, le forchette d’argento con le punte tutte storte per te, i mezzi cucchiai che usavamo da piccoli... tante cose di sempre. È stata un’estate così bella; ho cercato di godermela fino in fondo: il mare di Terrasini, mare di roccia finalmente, le gite in peschereccio, la frutta appena raccolta. Che impressione mi ha fatto svegliarmi la prima mattina sentendo parlare in dialetto sotto la mia finestra e... capendo tutto. È stato come ritrovare le radici, una certezza, una sicurezza.

Ma me la sono potuta godere soprattutto grazie a voi, perché non ci sono state fratture, urti, incomprensioni. Avresti dovuto vedere Vittorio, mi ha commosso; ha fatto tutto quello che ha potuto per farmi piacere. E Alberto e Marina lo stesso, e anche mamma; quante volte mi ha dato dolci per tutti, è venuta a conoscere la gente e ci ha prestato cose per la casa. E anche tu, papà, hai fatto tanto, anche senza parlare. Ti ringrazio soprattutto perché sei venuto al porto quando siamo partiti. Quella sera ero così fiera della mia famiglia! Poter dire alla gente «quello è mio padre e lì ci sono i miei fratelli» è così bello, sai.

Volevo dirti tutto questo perché non ho più scritto ed era il minimo che avessi potuto fare. Vedi, non è cambiato niente; io non sono diversa dagli altri. Anche se ognuno di noi crescendo ha preso la sua strada, tutto ciò che è comune – tante cose e così ben radicate – rimane, e siamo felici di ritrovarci insieme. La mia scelta forse a suo tempo è stata sconcertante; infatti era essenzialmente diversa perché più che una scelta era un «essere stata scelta». Era entrato in famiglia un imprevisto. Ma ciò che è più bello è che la chiamata ti lascia quello che sei, almeno nei tratti costituzionali. Quante volte mi sono sentita dire da persone che conoscevano la nostra famiglia: «Tu sei una Varvaro a chilometri». Mi piace tanto; mi ricorda un’altra chiamata di cui parla il Vangelo: «Tu sei Simone, figlio di Giovanni...».

Ed eccomi di nuovo qui a Milano; ormai fa un freddo gelido e ha nevicato più di una volta. Sto cercando di conoscere questa città, ma si nasconde. Roma è tutta lì a mostrare le sue bellezze; Milano è completamente diversa, devi andarle a scovare: dietro le facciate delle case più antiche, cortili bellissimi, chiese romaniche dove meno te l’aspetti e sotto terra, accanto ai tunnel della metropolitana, resti antichissimi.

Lavoro molte ore al giorno a tavolino, tanto che mi hanno soprannominato «il gufo». Però mi piace; seguo tutta l’attività delle Residenze universitarie, dei Centri culturali e in genere tutto ciò che è rivolto alle persone giovani, in Italia. Poi seguo anche personalmente tutto il lavoro di Milano in questo senso. Lavorare con le persone giovani è appassionante e non è vero che sono un disastro: c’è molta gente in gamba con un grande desiderio di arrivare sino in fondo in tutti i campi, nell’umano e nel soprannaturale.

Questo è un po’ tutto, anzi, c’è un’altra cosa: sono molto contenta. Vi penserò tanto in queste feste, ma non con tristezza. Prepara come tutti gli anni la tombola di Capodanno e gioca una cartella per me; spero di portarti fortuna. Poi, il mese prossimo – il 24 – sarà il mio compleanno: saranno tanti, 28! Ricordati: c’era la guerra in Grecia e tu scrivevi L’Intelligenza. Da tutto questo, e da altre cose che non so, sono venuta fuori io [...].

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