Nel 50° anniversario dell'indizione del concilio Vaticano II

In occasione del 50° anniversario dell'indizione del concilio Vaticano II, da parte del beato Giovanni XXIII (25 dicembre 1961) proponiamo un articolo di mons. Fernando Ocáriz - Vicario Generale della Prelatura dell'Opus Dei - pubblicato sull'Osservatore Romano il 2 dicembre 2011.

Il beato Giovanni XXIII, il Papa che ha indetto il Concilio Vaticano II.

LL'ADESIONE AL CONCILIO VATICANO II

Il cinquantesimo anniversario, ormai prossimo, della convocazione del concilio Vaticano II (25 dicembre 1961) è motivo di celebrazione ma anche di rinnovata riflessione sulla ricezione e applicazione dei documenti conciliari. Oltre agli aspetti più direttamente pratici di questa ricezione e applicazione, con le loro luci ed ombre, sembra opportuno ricordare anche la natura dell’adesione intellettuale dovuta agli insegnamenti del Concilio. Pur trattandosi di dottrina ben nota e sulla quale si dispone di abbondante bibliografia, non è superfluo ricordarla nei suoi tratti essenziali, tenuto conto della persistenza di perplessità manifestatesi, anche nell’opinione pubblica, riguardo alla continuità di alcuni insegnamenti conciliari rispetto ai precedenti insegnamenti del magistero della Chiesa.

Innanzitutto non sembra inutile ricordare che l’intenzione pastorale del Concilio non significa che esso non sia dottrinale. Le prospettive pastorali si basano infatti, e non potrebbe essere diversamente, sulla dottrina. Ma occorre, soprattutto, ribadire che la dottrina è indirizzata alla salvezza, il suo insegnamento è parte integrante della pastorale. Inoltre, nei documenti conciliari è ovvio che ci sono molti insegnamenti di natura prettamente dottrinale: sulla divina Rivelazione, sulla Chiesa, ecc. Come scrisse il beato Giovanni Paolo II, «con l’aiuto di Dio i Padri conciliari hanno potuto elaborare, in quattro anni di lavoro, un considerevole complesso di esposizioni dottrinali e di direttive pastorali offerte a tutta la Chiesa» (costituzione apostolica Fidei depositum, 11 ottobre 1992, introduzione).

L’adesione dovuta al magistero

Il concilio Vaticano II non definì alcun dogma, nel senso che non propose mediante atto definitivo alcuna dottrina. Tuttavia il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato «fallibile» nel senso che trasmetta una «dottrina provvisoria» oppure «autorevoli opinioni». Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo» (Ibidem).

Questo carisma, questa autorità e questa luce furono certamente presenti nel concilio Vaticano II; negare ciò all’intero episcopato cum Petro e sub Petro, radunato per insegnare alla Chiesa universale, sarebbe negare qualcosa dell’essenza stessa della Chiesa (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarazione Mysterium Ecclesiae, 24 giugno 1973, nn. 2-5).

Naturalmente non tutte le affermazioni contenute nei documenti conciliari hanno lo stesso valore dottrinale e quindi non tutte richiedono lo stesso grado di adesione. I diversi gradi di adesione alle dottrine proposte dal magistero sono stati ricordati dal Vaticano II, nel n. 25 della costituzione Lumen gentium, e poi sintetizzati nei tre commi aggiunti al simbolo niceno-costantinopolitano nella formula della Professio fidei, pubblicata nel 1989 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con l’approvazione di Giovanni Paolo II.

Le affermazioni del concilio Vaticano II che ricordano verità di fede richiedono ovviamente l’adesione di fede teologale, non perché siano state insegnate da questo Concilio, ma perché già erano state insegnate infallibilmente come tali dalla Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale. Così come richiedono un pieno e definitivo assenso le altre dottrine ricordate dal Vaticano II che erano già state proposte con atto definitivo da precedenti interventi magisteriali.

Gli altri insegnamenti dottrinali del Concilio richiedono dai fedeli il grado di adesione denominato «ossequio religioso della volontà e dell’intelletto». Un assenso «religioso», quindi non fondato su motivazioni puramente razionali. Tale adesione non si configura come un atto di fede, quanto piuttosto di obbedienza, non semplicemente disciplinare, bensì radicata nella fiducia nell’assistenza divina al magistero, e perciò «nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede» (Congregazione per la Dottrina della Fede, istruzione Donum veritatis, 24 maggio 1990, n. 23). Questa obbedienza al magistero della Chiesa non costituisce un limite posto alla libertà, ma al contrario, è fonte di libertà. Le parole di Cristo «chi ascolta voi ascolta me» (Luca, 10, 16) sono indirizzate anche ai successori degli apostoli; e ascoltare Cristo significa ricevere in sé la verità che rende liberi (cfr. Giovanni, 8, 32).

Nei documenti magisteriali possono esserci — come di fatto si trovano nel concilio Vaticano II — anche elementi non propriamente dottrinali, di natura più o meno circostanziale (descrizioni dello stato delle società, suggerimenti, esortazioni, ecc.). Tali elementi vanno accolti con rispetto e gratitudine, ma non richiedono un’adesione intellettuale in senso proprio (cfr. istruzione Donum veritatis, nn. 24-31).

L’interpretazione degli insegnamenti

L’unità della Chiesa e l’unità nella fede sono inseparabili, e questo comporta anche l’unità del magistero della Chiesa in ogni tempo in quanto interprete autentico della Rivelazione divina trasmessa dalla sacra Scrittura e dalla tradizione. Ciò significa, tra l’altro, che una caratteristica essenziale del magistero è la sua continuità e omogeneità nel tempo. La continuità non significa assenza di sviluppo; la Chiesa lungo i secoli progredisce nella conoscenza, nell’approfondimento e nel conseguente insegnamento magisteriale della fede e della morale cattolica.

Nel concilio Vaticano II ci sono state diverse novità di ordine dottrinale: sulla sacramentalità dell’episcopato, sulla collegialità episcopale, sulla libertà religiosa, ecc. Sebbene di fronte alle novità in materie relative alla fede o alla morale non proposte con atto definitivo sia dovuto l’ossequio religioso della volontà e dell’intelletto, alcune di esse sono state e sono ancora oggetto di controversie circa la loro continuità con il magistero precedente, ovvero sulla loro compatibilità con la tradizione. Di fronte alle difficoltà che possono trovarsi per capire la continuità di alcuni insegnamenti conciliari con la tradizione, l’atteggiamento cattolico, tenuto conto dell’unità del magistero, è quello di cercare un’interpretazione unitaria, nella quale i testi del concilio Vaticano II e i documenti magisteriali precedenti s’illuminino a vicenda. Non soltanto il Vaticano II va interpretato alla luce di precedenti documenti magisteriali, ma anche alcuni di questi vengono meglio capiti alla luce del Vaticano II. Ciò non è niente di nuovo nella storia della Chiesa. Si ricordi, a esempio, che nozioni importanti nella formulazione della fede trinitaria e cristologica (hypóstasis, ousía) adoperate nel concilio di Nicea I furono molto precisate nel loro significato dai concili posteriori.

L’interpretazione delle novità insegnate dal Vaticano II deve perciò respingere, come disse Benedetto XVI, l’ermeneutica della discontinuità rispetto alla tradizione, mentre deve affermare l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità (discorso, 22 dicembre 2005). Si tratta di novità nel senso che esplicitano aspetti nuovi, fino a quel momento non ancora formulati dal magistero, ma che non contraddicono a livello dottrinale i documenti magisteriali precedenti, sebbene in alcuni casi — a esempio, sulla libertà religiosa — comportino anche conseguenze molto diverse al livello delle decisioni storiche sulle applicazioni giuridico-politiche, viste le mutate condizioni storiche e sociali. Un’interpretazione autentica dei testi conciliari può essere fatta soltanto dallo stesso magistero della Chiesa. Perciò nel lavoro teologico d’interpretazione dei passi che nei testi conciliari suscitino interrogativi o sembrino presentare difficoltà, è innanzitutto doveroso tener conto del senso in cui i successivi interventi magisteriali hanno inteso tali passi. Comunque, rimangono legittimi spazi di libertà teologica per spiegare in un modo o in un altro la non contraddizione con la tradizione di alcune formulazioni presenti nei testi conciliari e, perciò, di spiegare il significato stesso di alcune espressioni contenute in quei passi.

Al riguardo, non sembra infine superfluo tener presente che è passato quasi mezzo secolo dalla conclusione del concilio Vaticano II, e che in questi decenni si sono susseguiti quattro Romani Pontefici sulla cattedra di Pietro. Esaminando il magistero di questi Papi e la corrispondente adesione a esso dell’episcopato, un’eventuale situazione di difficoltà dovrebbe trasformarsi in serena e gioiosa adesione al magistero, interprete autentico della dottrina della fede. Questo dovrebbe essere possibile e auspicabile anche se rimanessero aspetti razionalmente non pienamente compresi, lasciando comunque aperti i legittimi spazi di libertà teologica per un sempre opportuno lavoro di approfondimento. Come ha scritto recentemente Benedetto XVI, «i contenuti essenziali che da secoli costituiscono il patrimonio di tutti i credenti hanno bisogno di essere confermati, compresi e approfonditi in maniera sempre nuova al fine di dare testimonianza coerente in condizioni storiche diverse dal passato» (motu proprio Porta fidei, n. 4).

Mons. Fernando Ocáriz

    Fernando Ocáriz // L'Osservatore Romano, 2-XII-2011