Donare affetto, sapendo perdonare

Qualche giorno prima della festa di san Josemaría, il 23 giugno, mons. Mariano Fazio, vicario generale dell'Opus Dei, ha celebrato la Messa nella cappella del Campus Bio-Medico. Nello stesso giorno ricorreva il sessantanovesimo anniversario dell'arrivo a Roma di san Josemaría. Ha ricordato l'importanza di essere uniti al Papa e di essere «seminatori di gioia e di pace».

Cari fratelli e sorelle

Stiamo celebrando con grande gioia, e con alcuni giorni di anticipo, la festa di san Josemaría Escrivà, fondatore dell’Opus Dei e ispiratore di questo Campus Bio-Medico, uno dei suoi tanti sogni che sono diventati una bellissima realtà. E la provvidenza ha voluto che questi giorni di anticipo coincidano con l’anniversario dell’arrivo di san Josemaría a Roma nell’anno 1946, 69 anni fa. Si potrebbe dire senza esitazione che san Josemaría è stato sempre molto romano perchè era molto cattolico, però soprattutto questa romanità l’ha visssuta nella sua vita dal 1946 fino al 26 giugno 1975. C’è un punto di Forgia, uno dei libri di pensieri scritti dal nostro fondatore, che piaceva molto anche all’allora cardinale di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, oggi più conosciuto come Papa Francesco. Un giorno mi disse: «A me piace molto un punto di Forgia che parla della periferia». Io veramente non mi ricordavo di questo punto, che penso sia molto attuale, anche se è stato scritto molto prima di Papa Francesco, e che sia molto adeguato a un giorno come oggi in cui, oltre a celebrare la festa, ricordiamo questo anniversario: «La nostra Santa Madre Chiesa, in magnifica espansione di amore, va spargendo la semente del Vangelo per tutto il mondo. Da Roma alla periferia.— Collaborando a questa espansione, per l'orbe intero, porta al Papa la periferia, perché tutta la terra sia un solo gregge e un solo Pastore: un solo apostolato!» (Forgia, 638).

La prima cosa che volevo sottolineare di questo santo è la sua romanità, la sua cattolicità, il suo amore per la Chiesa e il romano pontefice. Diceva san Josemaría che qui aveva imparato a avere una fede più teologica, ma aveva conosciuto anche le carenze umane che si trovano sempre negli aspetti umani della Chiesa e della Curia, e però che era cresciuto in quell’amore al Santo Padre. Sono sicuro che se oggi preghiamo specialmente per il nostro amatissimo Papa Francesco, san Josemaría dal cielo ci benedirà perché diceva che l’Opus Dei era semplicemente una parte della Chiesa e che non si poteva capire senza guardare a questa famiglia soprannaturale che è la Chiesa di Dio, il corpo mistico di Cristo. Quindi la prima idea è di essere molto uniti al Papa, molto uniti alla sua persona, molto uniti alle sue intenzioni: il Papa ci ricorda sempre e ci chiede, “prega per me”. La seconda idea che volevo sottolineare in questa breve omelia (perché Papa Francesco ci dice 7-8 minuti, questa di oggi sarà di dieci, penso di non oltrepassare il limite permesso). Da quando è arrivato a Roma, un giorno come oggi di 69 anni fa, san Josemaría è stato un seminatore di pace e gioia. Prima ancora della sua venuta a Roma tentava di seminare pace e gioia, però penso che durante questo periodo romano questo lo viveva con più chiarezza. Nella sua vita ordinaria, prima a piazza della Città Leonina, accanto al palazzo apostolico, poi in viale Bruno Buozzi, è stato un seminatore di pace, nella sua famiglia soprannaturale, nelle sue amicizie e nelle persone che frequentava, che voleva frequentare per portare avanti l’Opus Dei, sempre costruendo dei ponti senza mai elevare muri. Lo stesso dice Papa Francesco: noi cristiani dobbiamo fare dei ponti e abbattere i muri, ognuno nella sua vita ordinaria, di lavoro di ogni giorno. Penso che questo sia anche un esempio per noi. Nell’ambiente in cui ci muoviamo, innanzitutto qui al Campus Bio-Medico, facendo i dirigenti gli impiegati, i medici, gli studenti, i pazienti ecc., siamo veramente seminatori di Dio – uso la prima persona plurale perché anche io mi sento molto vicino al Campus, mi sento parte del Campus. Quindi possiamo chiederci, siamo veramente seminatori di pace e di gioia? Il che significa tentare di unire, di evitare le incomprensioni, i litigi. Se tentiamo di mettere affetto nelle cose che facciamo, di mettere molto amore, facendo il lavoro bene, perché sappiamo che lo spirito dell’Opus Dei è la santificazione del lavoro. C’era una barzelletta un po’ clericale di un vescovo che era andato a celebrare la Messa, dopo la quale le suore gli avevano preparato un caffè. Al vescovo non era piaciuto il caffè e allora le suore gli hanno detto: «Ma lo abbiamo fatto con tanto amore!» e allora lui ha detto «Allora la prossima volta meno amore e più caffè». Fare bene il caffè, fare bene le cose che dobbiamo fare; donare affetto, sapendo perdonare perché tutti vogliamo fare cose molto belle, tutti abbiamo buonissime intenzioni, però, a volte sbagliamo e a volte possiamo offendere gli altri. Allora possiamo chiedere subito perdono, con un sorriso vero, non artificiale, come a volte fanno alcuni politici, che mettono sempre il sorriso prima delle elezioni, ma veramente un sorriso che esca fuori dalla nostra interiorità, pieno di pace, di gioia e di serenità perché siamo consapevoli che siamo nelle mani di Dio. Con lo spirito di servizio: tutte le cose che facciamo sono per servire gli altri e per servire Dio. Soprattutto in questi edifici che sono un santuario del dolore. Ieri Papa Francesco, a Torino, al Cottolengo, parlava del valore che ha la sofferenza, dove uno deve scoprire sempre il Cristo sofferente nelle persone che hanno qualche dolore o qualche malattia: quindi stiamo servendo direttamente Cristo nostro Signore.

Quando siamo andati insieme al cardinal Bergoglio all’Aparecida in Brasile, c’era un’assemblea dei vescovi latino-americani, ho accompagnato il cardinale per 500 metri dall’albergo fino al santuario, un giorno che faceva caldo. Ho chiesto al cardinale se non aveva un po’ di caldo, se non voleva togliersi un soprabito, ecc. E lui mi raccontò che doveva fare attenzione perché gli mancava mezzo polmone e mi disse che aveva provato tantissimo dolore quando aveva 18-19 anni. Tutti cercavano di consolarlo, ma riuscì a farlo soltanto un’infermiera, che era una religiosa, che gli spiegò: «Adesso stai partecipando ai dolori di Cristo»; mi raccontò che si aprì davanti ai suoi occhi un panorama spirituale immenso. Ora siamo nella cappella, ma tutto l’ospedale, tutto il Campus è un santuario del dolore che ci avvicina tanto al Signore. Quindi unione con il Papa, seminatori di pace e di gioia; l’ultima cosa che volevo sottolineare, è che, lo dicevo all’inizio, questo Campus Bio-Medico è un sogno di san Josemaría diventato realtà. Dobbiamo vivere la nostra vita pieni di speranza soprannaturale, di gioia e di ottimismo, non perché non vediamo i problemi – ci sono tanti problemi, tanti problemi nel mondo, tanti problemi in Italia, tanti problemi a Roma, tanti problemi al Campus Bio-Medico immagino: vedo una realtà bellissima, fantastica, persone stupende, ma mi rendo conto, posso indovinare che qualche cosa forse si può migliorare. Comunque non dobbiamo perdere mai la speranza; san Josemaría sognava sempre nuovi progetti al servizio di tutte le anime, trovava tanti problemi da risolvere e tanti ostacoli da superare e superò tutto quanto con la sua fede, con la sua speranza. Finisco con un testo di Papa Francesco preso dall’ "Evangelii Gaudium" dove parla, alla fine, della resurrezione del Signore. Questa deve essere anche il fondamento della nostra speranza e questa vita risorta produce dei germogli in tutto il mondo. Nel punto 279 dice:

«Poiché non sempre vediamo questi germogli, abbiamo bisogno di una certezza interiore, cioè della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché «abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7). Questa certezza è quello che si chiama “senso del mistero”. È sapere con certezza che chi si offre e si dona a Dio per amore, sicuramente sarà fecondo (cfr Gv 15,5).» Penso che noi tutti offriamo la nostra vita al Signore per servirlo con amore, quindi possiamo avere questa sicurezza, questa certezza che ci sarà e c’è questa fecondità nella nostra vita. «Tale fecondità molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata. Uno è ben consapevole che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né quando.» Finisco questa lunga ma bellissima citazione «Ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con amore,» quante opere dobbiamo fare e questo sarà la radice della fecondità «non va perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli altri» e siamo un posto dove tutti ci dobbiamo preoccupare per gli altri, «non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola attraverso il mondo come una forza di vita».

A san Josemaría, che era pieno di speranza, piaceva molto spesso finire le riunioni familiari e quando si incontava con molte persone, con una giaculatoria mariana. Diceva sempre: “Santa Maria, speranza nostra, sede della sapienza”. Finiamo questa omelia mettendoci sotto lo sguardo di nostra Madre nel cielo, chiediamo di essere molto uniti al Papa, di diventare veramente seminatori di gioia e di pace, di vivere di speranza e di manifestare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle anche le ragioni della nostra speranza. Così sia.